A colloquio con Giovanni Buttarelli, Garante europeo per la protezione dati

I principi internazionali sulla ‘privacy’ che vanno sotto il nome di ‘safe harbour‘ (‘porto sicuro’) permettono alle compagnie statunitensi di rispettare le norme sulla privacy che proteggono i cittadini dell’Unione europea e della Svizzera. Le compagnie USA che raccolgono i dati dei loro clienti garantiscono quindi di aderire ai sette principi previsti dalla direttiva Ue sulla protezione dei dati (informazione, libertà di recesso, trasferimento dati ad altri, sicurezza, rilevanza dei dati, accesso, applicazione). Risale al 2000 una decisione della Commissione europea secondo cui i principi applicati negli Stati Uniti sono in linea con la direttiva europea, la cosiddetta ‘decisione porto sicuro‘. Ma quando un cittadino europeo ha obiettato di non sentirsi sufficientemente protetto – è il caso di Maximilian Schrems – e ha fatto ricorso alla Corte di Giustizia Europea, quest’ultima ha decretato l’invalidità del principio del ‘safe harbour‘, il 6 ottobre dello scorso anno, e ha chiesto alla Commissione di attivarsi per creare un nuovo e più sicuro ambito per lo scambio di dati a livello transatlantico. Successivamente, per rispondere alla sollecitazione della Corte, al vertice Ue di dicembre 2015 è stata lanciata la proposta di dotarsi per la prima volta di norme europee comuni di ‘sicurezza‘ nel settore cibernetico mettendo così fine alla frammentazione tuttora esistente a livello europeo dove esistono ancora 28 sistemi diversi. Particolarmente importanti i settori dell’energia, quello bancario o sanitario in cui gli operatori nazionali devono assicurare di poter far fronte ad attacchi cibernetici e ottenere dai maggiori operatori online come eBay o Amazon o motori di ricerca dome Google e ‘la nuvola’, tutte le garanzie che le loro infrastrutture offrono per assicurare le necessarie garanzie di sicurezza. A Giovanni Buttarelli, Garante europeo per la protezione dati, abbiamo chiesto di spiegarci la posta in gioco e quali sono gli sviluppi di questa complessa questione che tocca molto da vicino la sensibilità degli utenti europei, ma anche il funzionamento delle imprese. Buttarelli, cosa pensa del ‘safe harbour’ dopo la sentenza Schrems ? L’accordo su ‘safe harbour’ non è mai stato soddisfacente. Lo abbiamo accettato ma a fronte della sua importanza ha avuto sempre una vita di basso profilo. E’ stato fatto il minimo necessario per renderlo effettivo e spesso meno del minimo. Quindi ci sono state a regolari intervalli iniziative per vivacizzarlo sulla base del principio che se un accordo esiste è meglio che abbia un valore effettivo. Gli Usa sono un partner strategico ed è chiaro che il dialogo è essenziale. Se mancasse un accordo come il ‘safe harbour’, non potrebbe non esserci qualcos’altro. E’ per questo che si è insistito per anni per dare piena vita a questi principi. E’ stata anche creata una ‘task force’ bilaterale che ha lavorato per anni a coordinare la parte europea e abbiamo identificato di comune accordo degli accorgimenti per renderlo sostenibile. Tutto questo riguardava la parte commerciale, business, quello che devono fare le imprese, non riguardava invece un elemento che, quando abbiamo negoziato il ‘safe harbour’, non poteva essere considerato: l’11 settembre e quindi la sicurezza nazionale. Il ‘safe harbour’ è nato prima di quella data. Quindi la frase più recente, secondo cui gli Usa potevano derogare unilateralmente per ragioni di sicurezza nazionale a quelle previsioni, è stata riportata anche nelle condizioni concernenti le clausole contrattuali e le ‘corporale tools’ (gli strumenti delle società) ma era stata concepita in un momento in cui nessuno pensava potesse accadere quello che poi è accaduto. Qui sorge un problema di valori. Sebbene in chiave diversa, Usa e Europa hanno tradizioni importanti di tutela del business. Da noi si parla di più di diritti fondamentali e di libertà garantite dalla carta costituzionale, da noi conta piú l’individuo piuttosto che il consumatore, l’abbonato o l’utente ma ci sono delle similitudini con gli USA e per alcuni aspetti dobbiamo parlare del contesto americano soprattutto per quanto riguarda l’’enforcement’ (l’attuazione) che in alcuni casi è molto più efficace in Usa anche per il sistema di ‘class action’ (e’ l’intervento di un nutrito gruppo di consumatori per protestare contro sistemi considerati iniqui, ndr) molto diffuso oltre oceano.

di Maria Laura Franciosi da L’Indro

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